14 settembre 2012

TAPPA FINALE, Almanya - La mia famiglia va in Germania


Una bandiera per ogni bambino della classe, una bandiera per ogni famiglia e ogni paese. La maestra le ha già posizionate tutte sulla cartina dell'Europa alle sue spalle, tranne una. E' la bandiera del piccolo Cenk. “Da dove vengono i tuoi genitori?”, gli chiede la maestra. “Anatolia”, dice lui. Ma sulla cartina l'Anatolia non c'è, un punto così distante della Turchia da non essere neanche Europa. Per la bandiera di Cenk l'unico spazio rimasto è la parete bianca.


Cenk è il nipote tedesco del turco Huseyin, è il figlio turco della tedesca Gabi. È un bambino di dieci anni che non sa da dove viene. E nel faccino triste di Rafael Koussouris, l’attore che lo interpreta, io mi sono riconosciuta perché tante volte mi sono chiesta da dove vengo, se a definirmi sono le mie scelte o quelle di chi è venuto prima di me. Se sono romana come mio padre, se sono ciociara come mia nonna o se sono torinese come ho scelto di essere, dove è che io mi riconosco?

Così mi sono imbarcata con Cenk e la sua famiglia per il viaggio che è “Almanya – La mia famiglia va in Germania” di Yasemin Samdereli, un viaggio lungo tre generazioni dalla Turchia alla Germania e ritorno.
Alla guida dello sgangherato pulmino c’è Huseyin, il capofamiglia, espatriato dall’Anatolia negli anni ’60 verso la Germania alla ricerca di un benessere sognato, raccontato dai giornali, bisbigliato tra gli abitanti del villaggio, e che ora ritorna in patria, convinto di trovare finalmente la serenità per la vecchiaia in una casa da ristrutturare nella campagna.

Si porta dietro tutta la famiglia, la moglie Fatma, i quattro figli, i due nipoti e la biondissima nuora tedesca. E mentre viaggiamo la nipote Canan ci intrattiene con tutti i ricordi del passato: il primo incontro dei nonni, la nascita dei genitori, i sogni di bambini.

Questo incrociarsi di presente e passato è il cuore ben riuscito del film. Catturati in un movimento fluido e regolare, scivoliamo nel passato e poi torniamo a vivere portandoci qualcosa, un pezzo in più del puzzle della nostra identità. Cosa sognava la mamma da piccola? Come dormivano gli zii quando erano poveri e condividevano il letto? Come si sono incontrati il nonno e la nonna? È una bilancia perfetta, ogni ricordo ha una risposta, nulla si perde, tutto si spiega, tutto si rivela.
Si rivela il segreto di Canan, che si riscoprirà più vicina alle donne della sua famiglia, si rivela la paura di Muhamed, che in Germania ha perso tutto e deve trovare un nuovo sogno, la bugia di Fatma, il timore di Alì. Tutti nascondono un segreto e ogni chilometro ci avvicina a casa e alla verità.


“Almanya” racconta il senso di spaesamento, il dolore dell’espatriato, il ritorno a casa con leggerezza e ironia. Sulla scia delle commedie sul fraintendimento culturale come i più famosi “Sognando Beckham” e “Il mio grosso grasso matrimonio greco”, “Almanya” si inserisce perfettamente nel filone prendendosi uno spazio tutto suo, decidendo di non lasciarsi mai andare alla banalità della vita di coppia ma concentrandosi sulla famiglia.
Pur incappando qua e là in momenti meno brillanti e peccando di originalità in alcuni punti, “Almanya” è una di quelle commedie piccole e preziose di cui si ha molto bisogno, un po’ per piangere ma soprattutto per ridere.

Chiara Marchetti

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